Dialettica: tre significati
?
di Antonio Calonego
Diceva
Aristotele che vi sono situazioni cui non possiamo imporre la camicia di forza
di una definizione univoca, spingendo la nostra richiesta di rigore scientifico
fino al limite di un accanimento incapace di rendersi conto dei termini reali
di ciò che è in discussione. Ma anche che il presentarsi di pluralità non
riducibili ad unum, non costringe l’indagine ad alzare le braccia in
segno di resa, come se ciò che le rimane non fosse che la disarmante
registrazione di frammenti dispersi e l’elenco l’unica possibile forma del loro
collegamento. Vorrà dire che la partita della ricerca razionale, che sempre
individua costanze, istituisce legami, genera successioni o elabora gerarchie,
dovrà ora giocarsi con strumenti meno invasivi e un concetto più sfumato di
ordine e di regolarità.
Quando,
finalmente, ricollochiamo Marx nel contesto del suo ambiente culturale e
riprendiamo a discutere di dialettica facendo piazza pulita delle
mistificazioni catechistiche di certo marxismo, accade proprio questo: le parole
riacquistano la molteplicità originaria dei loro significati e noi ci troviamo
a rivivere la stessa sfida che quella molteplicità, spesso intricata e
sfuggente, aveva lanciato al concetto,
quando l’organismo ancora manifestava la sua irrequietezza vitale e non si
era paralizzato nella rigidità bugiarda
del dogma. La storia della dialettica è, come è noto, la storia di una vicenda
multiforme e complessa, molto difficilmente riducibile entro contorni netti e formule conclusive. Potremmo però affrontarla
col metodo di certi disegnatori che tracciano poche linee significative e
riescono a far emergere una fisionomia. Nel suo articolo su Gramsci [leggi], ad esempio, S. Garroni
richiama la nostra attenzione su alcuni aspetti caratteristici di questa
storia. La dialettica ‹‹scioglie, egli dice, le <rigide cose> nella dinamicità
delle relazioni (…). Proprio in quanto mezzo per smascherare la
reificazione –la quale dà a rapporti e relazioni la forma di cosa (l’hegeliana
Verdinglichung)-, la dialettica si rivela strumento per mettere in luce (ma
anche per creare) la trama di interrelazioni, che è sottesa dal reale, pur
quando questo si presenti, immediatamente, fissato nella propria particolarità
e, così, chiuso nel proprio isolamento.››
Questa puntualizzazione può, mi sembra, costituire
una buona base per la riflessione. Il problema è che questo potere analitico,
questo “mettere in relazione”, risulta pienamente coerente con due significati,
con due modelli certamente distinti di dialettica (che siano poi anche separati
e contrapposti, che è quanto la mitologia del “rovesciamento dialettico”
sostiene, è un’altra questione). Si mette in relazione, infatti, sia
quando la relazione intercorre tra elementi di cui l’uno si trova su un piano
di generalità che è maggiore o uguale a quello dell’altro; sia quando la
relazione intercorre tra elementi di cui l’uno si trova su un piano di
generalità che è inferiore a quello dell’altro. Sia quando, per
intenderci, colleghiamo l’umanità all’animalità (ossia un tutto
pensato come uno, per usare il linguaggio di Russell, ad un altro tutto
pensato anch’esso come uno), sia quando colleghiamo l’umanità
a gli uomini (ossia un tutto pensato come uno a un tutto
pensato come molti). Per esempio, dovendo dialettizzare il pensiero di
Dio, Hegel lo mette in relazione al bello dell’arte e al vero della
filosofia. Marx, invece, riconduce il fenomeno religioso ad una sofferenza sociale,
ossia a qualcosa che ha a che fare con l’esistenza e le forme determinate del
suo presentarsi. Nel primo caso, la dialettica è una teoria, un discorso che, a
partire da certe sue premesse generali, come ogni altra teoria, genera un
ordine, una trama di interrelazioni, nell’universo degli oggetti, degli universali,
di cui si interessa. Nel secondo caso, la dialettica è piuttosto uno stile di
pensiero critico e antiteologico, che “toglie” l’universale, la
religione, dal suo preteso divino isolamento in quanto vede in esso “l’aroma
spirituale” di un modo concreto di
organizzarsi della convivenza, modo di cui occorre costruire la specifica
teoria, che la dialettica richiede e di cui è, ora, come in attesa. Con “specifica teoria” intendo una teoria
che si costruisce nel contesto di un sapere empirico già esistente (mentre
prima l’ambiente di riferimento era piuttosto quello che nella tradizione
occidentale prende il nome di filosofia o metafisica ), mutuandone linguaggio, metodologie,
problematiche epistemologiche, quadri concettuali ecc., ma in una sintesi
innovativa, che può arrivare, nei momenti più creativi, fino a proporre
radicali cambiamenti di prospettiva, se non
addirittura vere e proprie mutazioni genetiche.
Se non mi sbaglio, quello che Garroni ci propone è
di considerare sia il primo che il secondo modello come aspetti distinti di un
unica intelligenza dialettica, che dovendo seguire il mutevole e oscillante
andamento del reale, non può fossilizzarsi su posizioni programmatiche
precostituite. La proposta è interessante. E tuttavia, mi pare difficile non
rilevare che quello che viene così messo sul tavolo è un ulteriore significato
della parola dialettica; un terzo significato che vive negli altri
due, ma che non si identifica con nessuno dei due. Il problema di questo terzo
significato è che la caratterizzazione che di esso ci fornisce Garroni, nel
testo di cui stiamo discutendo (v. la citazione riportata sopra), non è
sufficiente a generare una fisionomia riconoscibile. Fuor di metafora, questo
vuol dire che lo spazio delle domande importanti che rimangono inevase è ancora
troppo ampio perché si possa chiedere al lettore più che un’attenzione
favorevole. Bisogna innanzitutto riconoscere che lo sviluppo effettivo dei due
modelli di dialettica, che abbiamo prima richiamato, mette in gioco potenti
ontologie e impegnativi concetti di verità che sono quanto meno differenti, se
non proprio collidenti. Assumeremo, rispetto alle ontologie, un atteggiamento
di tipo pragmatistico alla Quine ? Se la dialettica come teoria filosofica è
ipotesi e interpretazione (e risulta difficile pensare che possa essere
qualcosa di diverso) perché è vera ? In base a quale criterio diciamo che è
un’interpretazione vera e la distinguiamo
da un’interpretazione falsa ? Davvero non vi è conflitto tra la dialettica come
teoria filosofica e la scienza ? Davvero la scienza è, agli occhi del
“dialettico”, al di là delle buone intenzioni dichiarate, qualcosa di più che
un semplice sapere utilitaristico e strumentale ?
A me sembra che fin quando non risponderemo a
obiezioni di questo genere siamo ancora, come dire, allo scoperto, esposti alla critica di chi, magari ricordando le
parole che una volta Platone rivolse a Socrate, potrebbe farci osservare che la
nostra dialettica è solo, come disse il filosofo, “nobile retorica”.
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